Molte sono le cause che portano all’estinzione del rapporto di lavoro; tra queste vi è il recesso unilaterale, che da parte del datore, costituisce licenziamento e, dal lato del lavoratore, prende il nome di dimissioni. Accanto a questo tipo di estinzione del rapporto, vi è poi, la risoluzione consensuale, soggetta, nel tempo, a forte limitazione, quale motivo per aggirare i limiti legali. La terza ipotesi di estinzione del rapporto è l’impossibilità sopravvenuta della prestazione, sia per cause inerenti all’attività dell’impresa che per cause riguardanti la persona del lavoratore. Questa specificazione integra quella che sarà la disciplina del giustificato motivo oggettivo e soggettivo di licenziamento, introdotto con la L. n.604/1966.
Recesso ad nutum (senza giustificato motivo) quando è possibile?
E’ bene precisare che il Codice Civile e, specificatamente l’art. 2118, ammette il recesso dal contratto a tempo indeterminato, da parte di ciascuno dei contraenti, con il solo obbligo del preavviso, con la funzione di attenuare le conseguenze pregiudizievoli, derivanti da un atto unilaterale come il recesso, nella misura stabilita dai contratti collettivi, quindi senza giustificare il motivo dell’atto unilaterale. Lo stesso articolo stabilisce che, qualora manchi proprio la determinazione del preavviso, quale unico obbligo, il recedente è tenuto a corrispondere all’altra parte l’indennità di mancato preavviso, corrispondente alla retribuzione che gli sarebbe spettata per il periodo del preavviso.
Recesso vincolato (con giustificato motivo)
Vari interventi legislativi si sono susseguiti riguardo l’obbligo di integrare nel recesso, oltre al preavviso, anche il giustificato motivo, oggettivo o soggettivo, a seconda dei casi. La disciplina in questione è dettata dalla già citata L. n.604/1966, riguardo sempre ai rapporti di lavoro a tempo indeterminato, come stabilito dall’art. 2118 c.c. Tale norma ha così stabilito che il datore di lavoro può pervenire, nell’ambito del suo potere di recesso, a licenziare il lavoratore solo previa comunicazione scritta e, dove richiesto dal lavoratore, la determinazione dei motivi del licenziamento, subordinatamente alla previsione o di “giusta causa” o di “giustificato motivo“. In mancanza, egli è obbligato alla riassunzione o, alternativamente, al pagamento di una penale, a titolo di risarcimento, la cosiddetta “tutela obbligatoria“. Tuttavia, i limiti che tale norma incontra sono inerenti alle caratteristiche dimensionali dell’impresa che comprende più di 35 dipendenti, e all’applicabilità della disciplina solo per i soggetti iscritti ai sindacati stipulanti.
Nella tutela obbligatoria, il licenziamento intimato in assenza del giustificato motivo o della giusta causa comporterà solo l’illeicità dello stesso, senza peraltro impedire l’effetto estintivo del rapporto, fatte comunque salve le relative sanzioni. L’ammontare spetta al giudice, ma può variare da un minimo di 2,5 ad un massimo di 6 mensilità, aumentata a seconda degli anni di anzianità del lavoratore.
Articolo 18 statuto dei lavoratori (L. 20 maggio 1970 n.300)
Una più ampia tutela a riguardo è stata introdotta con l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, il quale prevede, come unica conseguenza possibile del licenziamento illegittimo, cioè senza “giusta causa” o “giustificato motivo”, la reintegrazione nel posto di lavoro, oltre al risarcimento del danno. E’ questa la previsione della “tutela reale” che, tuttavia, è soggetta anche qui al limite dimensionale dell’impresa, comprendente almeno 15 dipendenti per unità produttiva. Nella tutela reale, il licenziamento, intimato in violazione dell’obbligo della giusta causa o giustificato motivo, verrà dichiarato annullabile e, pertanto, privo di effetti, al contrario di ciò che avviene nella tutela obbligatoria.
L. n 108/1990
A tutela dei dipendenti che lavorano presso piccole imprese che non ricoprono i tetti numerici minimi e che per tale motivo non rientrerebbero nella tutela prevista, è intervenuta la Corte Costituzionale, per ridefinire il campo d’azione sia della tutela reale che quella obbligatorie e, sancendo, l’obbligatorietà della giustificazione del licenziamento da parte del datore che lo mette in atto, a favore di tutti lavoratori. Perciò quello che prima era la regola, cioè il recesso ad nutum, è diventata ora l’eccezione. In questo modo, l’unico licenziamento legittimo è quello intimato o per giusta causa o per giustificato motivo, oggettivo o soggettivo. Solo per alcune categorie di lavoratori il recesso ad nutum è ancora possibile e cioè:
- i lavoratori domestici;
- gli sportivi professionisti;
- i lavoratori in prova, ma solo se essa non sia diventata definita e non siano trascorsi 6 mesi dall’inizio del rapporto;
- i lavoratori anziani che abbiano maturato il diritto alla pensione di vecchiaia e che quindi abbiano anche compiuto 65 anni;
- i dirigenti, sottoposti a una autonoma disciplina.
Recesso per “giusta causa”
Un altro licenziamento possibile è quello intimato per giusta causa, sempre nei rapporti di lavoro a tempo indeterminato, come sancisce l’art. 2219 c.c. Tale licenziamento non è soggetto all’obbligo del preavviso, proprio perché subentra nei casi straordinari, in cui l’efficacia del rapporto cessa immediatamente. Ovviamente, qualora non venga accertata siffatta causa, il datore che provvede a licenziare un suo dipendente, incorrerà nell’indennità di mancato preavviso. Solo in un caso è previsto che, al lavoratore che richieda le dimissioni per giusta causa, venga disposta anche l’indennità di mancato preavviso e cioè quando esse sono rese in conseguenza a un fatto dipendente dal datore, il quale ha provveduto a licenziare senza preavviso. La giusta causa è in ogni caso esclusa nelle ipotesi delle procedure concorsuali, quali il fallimento o la liquidazione coatta amministrativa dell’azienda. Questo perché se fosse ammessa, sarebbe un modo per eludere l’obbligo del preavviso.
Infortunio, malattia, puerperio, e gravidanza: impossibilità sopravvenuta della prestazione.
In questi casi, in cui la prestazione è temporaneamente sospesa, il codice civile prevede una parziale tutela per il lavoratore che si trova in una situazione di bisogno. L’art. 2110 c.c stabilisce che è escluso il licenziamento ad nutum, ma solo quello per giusta causa. Le conseguenze per il lavoratore sono la sospensione del rapporto e la relativa retribuzione, con conservazione del posto di lavoro. Ovviamente, se tale periodo si protrae per un tempo prolungato, il datore può provvedere a licenziare il lavoratore per giustificato motivo soggettivo, in quanto incorre in un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali, tali da rendere inutile l’interesse a ricevere la prestazione da parte del datore.
Impugnazione del licenziamento illegittimo
La L. n.604/1966 definisce anche le modalità per l’impugnazione del licenziamento e, in particolare, stabilisce che il lavoratore, diversamente da quanto avviene nella maggior parte dei negozi invalidi, possa proporre, oltre che l’azione giudiziale, anche il procedimento stragiudiziale, che si esplica attraverso comunicazione diretta al datore di voler procedere al ricorso o attraverso l’intervento del sindacato, entro il termine di 60 giorni dalla ricezione della comunicazione del licenziamento.
Entro il termine di 270 giorni dal provvedimento stragiudiziale, deve seguire il deposito del ricorso presso la cancelleria del giudice del lavoro, oppure la richiesta, fatta pervenire alla controparte, del tentativo di conciliazione. Decorsi 60 giorni dal deposito o dal mancato accordo tra le parti, il ricorso deve essere depositato al giudice, per la successiva emanazione della sentenza.
Dichiarato illegittimo il licenziamento, sul datore grava un generale obbligo di reintegro del lavoratore nell’azienda, mediante invito a riprendere servizio. Se il datore non ottempera al suddetto obbligo, verserà in una situazione di “mora credendi“, cioè immotivato rifiuto a ricevere la prestazione, con il relativo obbligo della retribuzione, anche se a mancare è proprio l’esecuzione della prestazione. Dall’altra parte, il lavoratore, ricevuto l’invito a tornare sul posto di lavoro, deve riprendere l’attività entro 30 giorni, decorsi i quali, il rapporto si intende risolto per dimissioni. In questo caso, in alternativa alla reintegrazione, al lavoratore spetta un’indennità pari a 15 mensilità di retribuzione globale di fatto. Qualora il datore si trovi in una condizione di difficoltà, per la quale gli è impossibile temporaneamente reintegrare il lavoratore, dovrà versargli un’indennità non inferiore a 5 mensilità, a titolo di risarcimento danno, per il periodo che va dal licenziamento all’effettiva reintegrazione, e al versamento dei contributi assistenziali e previdenziali. La sua è una funzione risarcitoria che si tramuta in funzione di sanzione comminatoria nel caso in cui il lavoratore non è reintegrato.
Art. 28 statuto dei lavoratori: repressione della condotta antisindacale
Il lavoratore, sottoposto al potere unilaterale del datore, può incorrere nel licenziamento intimato per cause di natura discriminatoria. A questo proposito si applica lo strumento processuale previsto dall’art. 28 dello Statuto dei lavoratori, finalizzato alla tutela di un interesse collettivo, quale il rispetto della persona in quanto individuo, sul posto di lavoro, con cui si ha in ogni caso l’effetto del reintegro del lavoratore, ma il datore che non ottempera agli obblighi previsti, andrà incontro alle sanzioni disposte dall’art. 650 c.p. e cioè “inosservanza dei provvedimenti d’autorità”,per ragioni di sicurezza pubblica, per cui è previsto l’arresto fino a 3 mesi e un’ammenda fino a 206 euro.
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